CORSO DI GIORNALISMO
PROSPETTIVE DEL GIORNALISMO ONLINE 

5.2. - IPOTESI SUL FUTURO

5.2.1 - Le piattaforme in arrivo: banda larga e video online, Internet mobile
La velocità di caricamento dei contenuti pubblicati online è destinata ad aumentare vistosamente e con continuità nel tempo. Tutta l’attenzione che in passato si è dedicata alla produzione di pagine leggere sarà in futuro dimenticata. E sostituita dal gusto. Per arrivare si spera comunque a pagine leggere. Ma non per motivi strettamente tecnici, quanto per effetto di una cultura che Internet sembra privilegiare: la parola sull’immagine, la ricerca attiva sulla ricezione passiva.

Contemporaneamente, la banda di accesso in mobilità è destinata ad aumentare. Ma i due fenomeni convergeranno solo se ci sarà anche una ridefinizione del ruolo degli operatori mobili: dovranno capire che la diffusione dell’uso della loro tecnologia sarà tanto maggiore quanto più lasceranno libera la pubblicazione anche sulla rete mobile. Oggi, non è certo vietata: ma è talmente penalizzata che i consumatori quasi non riescono a capire come accedere ai contenuti che non sono strettamente quelli proposti dagli operatori.

Sta di fatto che una fioritura di nuovi terminali in grado di soddisfare tutte le esigenze ergonomiche e pratiche dell’accesso, in chiave mobile e fissa, con architetture formate da piccole reti personali di oggetti dedicati, con meno fili e più performance, è una prospettiva estremamente realistica. Le interfaccia saranno vocali e testuali, i costi saranno elevati o limitati, i display saranno giganteschi o piccolissimi...

Inutile andare troppo oltre. La proiezione della tecnologia nel futuro è sempre difficile. Ma un fatto è certo: la connettività aumenterà e aumenterà la varietà e comodità degli strumenti di accesso. Dunque per i giornali digitali le prospettive sono sempre più interessanti.

Anche perché le nuove piattaforme saranno costruite in modo da garantire anche un sistema di pagamenti per i contenuti. Modellato sul sistema dei contenuti accessibili con le reti mobili. In sostanza, si potrebbe immaginare di avere la modalità radio-televisiva come una sorta di vetrina veloce di un servizio di informazione mobile istantaneo e leggero e, contemporaneamente, di un servizio fisso ricchissimo di contenuti. Come già oggi, in effetti, avviene in alcuni casi particolarmente avanzati (basti pensare alla Cnn).

Non ci sarà dunque alcuna sparizione di media. Ci sarà piuttosto una relazione sempre più stretta tra i diversi media, intesi come canali di accesso alle competenze di redazioni sempre meno legate al linguaggio specifico di un medium ma sempre più orientate a coltivare la loro competenza tematica e la loro credibilità.

- Il nuovo giornalismo online

«Nella società dell’informazione conta di più il denaro o l’informazione?» è la domanda di «Panorama» a Bill Gates, leader della Microsoft. Che risponde, non senza una, per lui, inconsueta esitazione: «Il denaro è una forma di informazione». Risposta corretta anche se piuttosto tecnica. Per essere più originale, avrebbe potuto pure dire il contrario: «L’informazione è il nuovo denaro». In ogni caso, appare chiaro che Gates di questo genere di informazioni ne ha più dei giornalisti.

Ma se l’informazione si muove come il denaro, il suo valore si muove come la borsa. L’audience dei servizi giornalistici trasmessi in tv, la quantità di clic sui pezzi pubblicati online, appaiono come una misura immediata del peso dei loro autori e dei contenitori che li ospitano. E le notizie di agenzia che fluiscono sui terminali dei trader delle grandi banche tendono a influire direttamente, immediatamente, sui movimenti dei titoli quotati, finendo col diventare denaro e non solo un suo analogo.

Eppure, l’immediatezza potrebbe diventare la principale causa di crisi del giornalismo tradizionale. L’ipotesi è troppo forte? Forse. Ma l’immediatezza è potente quanto ambigua: è l’annullamento del tempo che intercorre tra un fatto e il suo racconto, ma è contemporaneamente la riduzione del ruolo del mediatore. Il filmato del secondo aereo che si abbatte sul World Trade Center di New York, trasmesso in diretta in tutto il mondo è una notizia gigantesca ma il suo autore ha un ruolo più di operatore che di mediatore. Con tutto il rispetto, non è troppo diverso dal servizio che fa l’occhio elettronico di una webcam puntata sull’angolo della strada, e costantemente connessa a Internet, che per caso intercetta un fatto come il mitico «uomo che morde un cane».

Conseguenza diretta: nella diffusione dirompente dell’immediatezza c’è l’origine del cosiddetto «information overload», il sovraccarico di informazioni che investe la società e le singole persone e che trasforma le notizie in commodity. Perché tanto meno c’è mediazione tanto meno c’è selezione. In queste condizioni, si trasmette tutto il presente che si riesce a registrare. Il singolo pezzo perde valore. E ne acquista casomai il contenitore, o meglio l’interfaccia, il brand e la quantità di utenti del contenitore. Questo causa qualche disequilibrio.

Un tempo la definizione di giornali e giornalisti erano tautologiche. Erano giornali quei prodotti vagamente periodici che erano fatti da giornalisti. Ed erano giornalisti coloro che facevano i giornali. L’informazione, con una evidente forzatura del linguaggio comune, tendeva a coincidere con il servizio reso dai giornali. Il ruolo di editori e giornalisti era quello di operare una mediazione tra fonti dell’informazione e pubblico. Certo, la realtà si incaricava spesso di mettere in discussione la teoria: per le commistioni di interessi di molti proprietari delle case editrici e per la vaghezza deontologica di molti aspetti del mestiere giornalistico. Ma almeno la retorica era semplice. Il cronista racconta i fatti, si diceva. I più sottili dicevano che li interpreta. I più critici dicevano che li crea. In ogni caso, il ruolo delle persone era riconoscibile. Oggi lo è solo quello dei personaggi.

La questione si è fatta più complessa. L’informazione è diventata la materia prima dell’economia della conoscenza. Nuovi editori, nuovi ruoli per gli editori tradizionali, nuovi diritti d’autore, nuovi sistemi di accesso, nuova pubblicità: il sistema è sottoposto a sollecitazioni dirompenti. Molti sembrano pensare che l’informazione sia una faccenda troppo importante per lasciarla in mano ai giornalisti. I quali peraltro hanno difficoltà crescenti a tenere in mano quel pubblico che, solo in Italia, ormai passa 150 milioni di minuti al giorno a consultare Internet, seguendo percorsi mediati da macchine, directory e persone di molti mestieri diversi.

Finita la tautologia giornali, giornalismo, giornalisti, la storia dei contenitori e dei mezzi si è separata da quella dei singoli produttori di contenuti e dei singoli brani di contenuto. Così il giornalismo appare ormai una pratica in cerca di una nuova teoria. E i giornalisti sono artigiani alla ricerca della propria arte.

- Contenitori e contenuti

I contenitori sono stati sottoposti a sollecitazioni straordinarie dall’avvento dei nuovi media digitali e interattivi. Rapidamente si sono susseguite, in parte sovrapponendosi, tre fasi: la scoperta, sulla scorta dei pensatori dell’avanguardia digitale; l’esaltazione, con il tema del denaro speculativo a farla da padrone; lo scoppio, con una depressione esagerata quanto l’euforia precedente.

All’inizio del boom, dunque, tra il 1994 e il 1997, l’impatto delle avanguardie internettiane è stato fortissimo. I newsgroup e le bacheche elettroniche facevano pensare all’informazione autogestita, nella quale il pubblico e i produttori di contenuti si confondevano, per rigenerarsi in comunità di interessi. Il browser gratuito dell’allora studente universitario Marc Andreessen, che si è diffuso sulla Rete come un virus perché rendeva molto facile leggere gli ipertesti scritti, altrettanto facilmente, nel non esoterico linguaggio html, faceva pensare al crollo delle barriere economiche alla pubblicazione, sollecitando l’ipotesi di una disintermediazione dell’editoria e una relazione più diretta tra autori e pubblico. Le guide e i motori di ricerca, come Yahoo! e Altavista, aprivano la strada dei portali, contenitori completamente nuovi, proiettati a rispondere in modo personalizzato all’«information overload».

I modelli di business inventati per supportare queste novità, sulla base dell’ipotesi di una crescita esponenziale di qualunque dato quantitativo connesso alla Rete si sono presto trasformati in grandi pregiudizi positivi, alimentando un consenso assoluto sull’idea del loro destino di successo: questo ha reindirizzato velocemente (troppo velocemente) molte iniziative internettiane dalla vendita di servizi alla vendita di azioni in borsa, con la conseguenza, descritta mille volte, della Grande Bolla.

Lungi dall’avere effetti meramente finanziari, lo scoppio della Bolla ha annullato in pochi mesi una enorme quantità di piani di business, quindi di investimenti e posti di lavoro. Cosicché nell’immaginario collettivo Internet è stata identificata con un fenomeno futile e dannoso come la speculazione finanziaria. A sopravvivere sono stati in generale i progetti di riorganizzazione interna dei grandi gruppi che erano nati con una logica più lontana dalla speculazione, oltre ai pochi nuovi soggetti economici che avevano trovato un chiaro successo di mercato su Internet e che magari avevano fatto in tempo a finanziarsi in borsa.

Nel corso di sette anni si è così passati dall’esaltazione di poche minoranze, all’euforia di massa, alla stanchezza generalizzata sul tema. Con il ritorno in minoranza degli innovatori.

Questi peraltro continuano a lavorare. E non cessano di vivere a un ritmo estremamente veloce. Perché le tecnologie delle quali hanno fatto i loro strumenti non smettono di cambiare e trasformarsi, aprendo continuamente nuovi fronti competitivi. A spingere sull’acceleratore dell’innovazione per i contenitori, oggi, sono i temi della sicurezza, del “content management”, della gestione integrata di progetti di marketing complessi, dell’integrazione di contenuti e software applicativo, della privacy, della banda larga, dell’integrazione tra accesso fisso e mobile, della nuova pubblicità, e così via. In sintesi, la tecnologia continua a proporre nuove opportunità, genera nuovi problemi, invita a nuovi investimenti: e sottolinea la possibilità di integrare nuovi linguaggi.

Ma se i contenitori sono frutto di idee imprenditoriali, hanno un impatto decisivo sulla pratica del giornalismo. Perché questo non è che l’interpretazione quotidiana di quelli. E se l’immediatezza è diventata una parte integrante del linguaggio giornalistico, mettendolo in parte in crisi, la velocità di mutazione dei contenitori ha contribuito a far esplodere i parametri di riferimento del lavoro di chi fa informazione.

Il primo problema di una teoria del giornalismo, in effetti, è come muta la percezione del tempo. Del resto, la prima domanda del giornalista è sempre stata: quando? Ebbene: da quanto si è detto, si deduce che la funzione di questa domanda sta cambiando. Ma ci si deve domandare se questo avviene in modo corretto. O per lo meno se sta avvenendo in modo comprensibile. L’idea che l’immediatezza dell’informazione sia un valore sistematico del giornalismo va presa criticamente: è vero che il servizio giornalistico deve attrezzarsi per accelerare costantemente il suo prodotto se è vero che la realtà sulla quale informa, a sua volta, accelera. Ma è maggiormente vero che, più che la realtà, ciò che accelera è la percezione della realtà. E la struttura dei contenitori influisce pesantemente sulla percezione della realtà.

Il ritmo del mezzo ha un’influenza sulla percezione del ritmo del referente del messaggio. Come dire: se il giornale deve uscire e non ho una notizia sull’argomento che interessa, è meglio costruire una notizia piuttosto che lasciare un vuoto. Il che fa parte del mestiere. Ma nel passare da ritmi quotidiani a ritmi più incalzanti il fenomeno punta, appunto, all’immediatezza con la conseguenza della crisi della mediazione giornalistica e l’esaltazione della mediazione dei contenitori. Con una variante anche più insinuante: la mediazione del contenitore si può incarnare in una persona che diventa personaggio e la cui funzione è quella di interpretare il contenitore diventandone il simbolo sintetico. A quel punto, paradossalmente, è raggiunto il massimo della deresponsabilizzazione dell’individuo.

Già la diretta televisiva aveva impostato la questione in termini di immediatezza: più definibile come servizio nel caso della trasmissione di una partita, meno facilmente definibile in altri casi, più votati alla costruzione di notizie, come i talk show che non raccontano ma determinano dibattiti, per esempio politici, altrimenti inesistenti. Ma il boom di Internet ha introdotto un nuovo motivo di accelerazione della velocità percepita: perché la Rete ha tolto di mezzo il racconto del reale organizzato intorno a un palinsesto lineare tipico della televisione, sostituendolo con un menu di fenomeni simultanei.

Ma se questo fenomeno proseguisse senza correzioni, le conseguenze sul mestiere dei giornalisti sarebbero importanti. E in parte si possono già vedere nei fatti: giornali senza giornalisti, come i notiziari dei portali, con un pubblico più numeroso dei giornali fatti da professionisti; giornalisti che si trasformano, assorbendo sempre di più ruoli operativi; giornalisti mutati in personaggi che leggono un copione scritto da sceneggiatori non necessariamente dotati di esperienza giornalistica, fino a personaggi che più semplicemente interpretano un ruolo che assomiglia a quello dei giornalisti assorbendone le funzioni dal lato della relazione con il pubblico senza minimamente influire sul lato della relazione con le fonti.

- Nuovi ruoli per i giornalisti?

Ma il destino dei giornalisti non è necessariamente quello di subire il dominio dei contenitori. Non è una regola, ma a fare la differenza dal punto di vista qualitativo nei nuovi contenitori informativi è stato molto spesso il contributo di persone con un’esperienza da giornalisti: a KataWeb, a Tiscali, a Virgilio, a Msn, a CiaoWeb, e così via. Intendiamoci, i giornalisti non hanno certo potuto salvare imprese nate male a causa di culture aziendali sbagliate, ma in generale hanno portato un valore editoriale chiaramente riconoscibile ai servizi. La responsabilità di chi fa questo mestiere è quella di rendersene conto: capire quali sono i reali punti di forza del mestiere da valorizzare e trovare la strada per influenzare i fenomeni mediatici.

Ma ci vuole un progetto. E si devono vedere le strade per realizzarlo.

Le ipotesi di soluzione che si intravedono in proposito sono due: 1. Il ruolo giornalistico si estende, abbraccia compiti che un tempo si potevano definire tipici dei tecnici, dei tipografi, degli ingegneri, dei consulenti d’azienda e dei progettisti di modelli di business contenutistici; 2. Il ruolo giornalistico si precisa, alla ricerca di un’identità professionale che le sollecitazioni strutturali tendono costantemente a mettere in crisi. Entrambe le ipotesi sono realistiche. E probabilmente entrambe possono verificarsi.

L’estensione del mestiere dei giornalisti è nei fatti. E visto che la logica dei contenitori assume una importanza crescente, visto che già oggi alcuni giornalisti hanno dimostrato di poter contribuire alla costruzione dei contenitori, allora tanto vale occuparsene con una teoria forte. La mediologia che si va sviluppando ai confini tra storia e antropologia appare in proposito una disciplina da seguire. Ma se ci fosse solo questo fenomeno, però, l’identità professionale sarebbe destinata a sparire in brevissimo tempo.

Partecipare alla progettazione dei contenitori, dei flussi logici della comunicazione, della gestione dell’informazione, del rapporto tra linguaggio, target e mezzo di trasmissione, fa parte del futuro del giornalismo. Come, certamente, ne fa parte l’osservazione delle trasformazioni che agitano gli editori tradizionali, la nascita di nuovi editori e la presa di coscienza della dimensione mediatica di qualunque attività imprenditoriale. E tenere d’occhio la nuova pubblicità, impossibile da cacciare indietro, e a sua volta costretta a inseguire le tradizionali tecniche intrusive ma anche a ricercare nuove soluzioni per inserirsi (o insinuarsi) nei luoghi dell’informazione interattiva. Capire, infine, quali sono i meccanismi per cui i prodotti giornalistici vengono trattati da commodity quasi senza valore e da pagare una miseria, e quali sono le strade per valorizzarli e garantire pagamenti decenti per i contenuti che li meritano.

Insomma, interrogarsi sull’identità dei giornalisti, man mano che queste nuove dimensioni della professione andranno avanti, diventerà sempre più necessario. Perché la complessità, crescente, è il lato buono della confusione.

Compito non facile, quell’interrogarsi. Non abituale per chi fa un mestiere che predilige la pratica alla teoria. Le risposte tradizionali, in effetti, non sono tutte completamente giuste. Il giornalista è il testimone dei fatti? Ma questa funzione tenderà fatalmente a concentrarsi nelle agenzie, giganti mondiali in grado di fare economie di scala nella distribuzione e commercializzazione, mentre i pochi grandi giornalisti continueranno a firmare i loro pezzi straordinari, eccezioni destinate a non diventare mai la regola. Il giornalista è il messaggero? Può darsi, ma lo è insieme a mille altre categorie che parlano pubblicamente, supportate dalla moltiplicazione dei media e delle funzioni mediatiche dei prodotti e dei servizi. Il giornalista è mediatore tra fonti e pubblico, è interprete, scopritore e semplificatore di fenomeni complessi? È un ruolo che si trasforma con la trasformazione dei fenomeni stessi.

Come cogliere in tutto questo la strada per definire meglio l’identità professionale dei giornalisti? Di sicuro, nessun contratto potrà regolare queste mutazioni senza tentare di fermarle. Ci vuole di più di un contratto: se è vero che “content is king”, è anche vero che la Rete è ormai, finalmente, una Repubblica. E non oligarchica. Dunque, forse, ci vuole una carta costituzionale.

Ma questa non arriverà presto. E nel frattempo il bisogno di un’identità si farà sempre più urgente.

Allora, in mancanza di una Costituzione dei giornalisti, in grado di accompagnare le trasformazioni cui la categoria da anni fa fronte quasi preparandosi ad affrontare cambiamenti ancor più drastici, si può tentare un’ipotesi di identità, intuita più che definita.

Ebbene, partiamo ancora dal confronto con il passato. Un tempo, i flussi di notizie scorrevano come un fiume la cui sorgente, i cui argini e il cui sbocco al mare erano quasi completamente sotto il controllo di giornalisti. Oggi le notizie sono un diluvio, il territorio ne è sommerso, i giornalisti non controllano nulla. Al massimo raccolgono brani di un fenomeno gigantesco. Ma hanno una pratica. E questa pratica è diventata una scuola.

E questo elemento innegabile è parte dell’identità del giornalista. È uno che ha fatto una scuola, un apprendistato, specializzandosi nel trattamento dell’informazione.

È giusto dire che ci vuole più formazione giornalistica. Ma è ancora più giusto studiare e valorizzare la qualità formativa della pratica giornalistica. Se la prassi delle grandi organizzazioni ha ormai compreso che esiste una funzione di marketing e una di comunicazione, in futuro deve comprendere che esiste una funzione mediatica: capace di tenere insieme le qualità mediatica intrinseca in ogni prodotto, la semplicità dei messaggi, l’interesse del pubblico. E nei giornali, nelle grandi aziende editoriali, riconoscere questo indispensabile elemento formativo dell’attività giornalistica può diventare una nuova prassi della cosiddetta gestione delle risorse umane: un recupero, modernizzato, del rapporto tra esperto e apprendista tipico di quando il giornalismo era ancora artigiano. Si tratta potenzialmente di un forte fattore motivazionale. Soprattutto se aprisse la strada, accennata poc’anzi, di una serie di mestieri non necessariamente legati alla fattura di giornali (concetto il cui significato si va, appunto, confondendo).

Internet, in tutto questo, sarà il fenomeno decisivo. Di Internet si è parlato molto come di un nuovo medium. Non abbastanza come piattaforma che gestisce l’elemento mediatico di ogni prodotto e servizio. Sulla scorta dei suggerimenti di Tom Siebel, se ne parla sempre più spesso come di supporto per l’organizzazione di una relazione multicanale con il pubblico. Il fondatore della Siebel, leader nelle soluzioni software per l’e-business, sostiene che pur essendo innegabile il ruolo di Internet come medium, le sue potenzialità sono molto più rilevanti se lo si considera come uno strumento per aprire le aziende (editoriali e non) alla relazione con il pubblico in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti gli orari che fanno comodo al pubblico stesso. Perseguendo questo scopo, però, la relazione tra azienda e pubblico viene incanalata attraverso uno strumento che, mentre “serve” , comunica e ascolta. Una banca che adotti la filosofia di Siebel, per esempio, usa Internet per aprire i suoi sportelli virtuali 24 ore su 24 e senza limiti di localizzazione e per supportare l’attività delle filiali fisiche con attività operative o di marketing: ma nello scegliere la Rete per tutto questo finisce con l’aumentare notevolmente l’interazione con i clienti attraverso un mezzo di comunicazione. Questo significa che l’attività editoriale, o mediatica, della banca aumenta in maniera importante. Insomma: Internet non è solo un nuovo medium, ma è anche la piattaforma per la mediatizzazione di qualsiasi attività che implichi una relazione tra un’organizzazione e un pubblico.

I suoi effetti futuri non sono ancora chiaramente percepibili: anche perché la Rete è una realtà che cambia costantemente e i suoi nodi si moltiplicano e si trasformano ogni minuto. Dal punto di vista tecnologico, ovviamente, ma anche sotto il profilo della capacità di produrre significati, di creare nuovi linguaggi, di cambiare le abitudini di accesso del pubblico all’informazione. Non si è ancora stabilizzato il fenomeno di Internet via personal computer e già si apre il tema dell’accesso con un telefonino o con un palmare. In attesa di veri navigatori per auto in grado di collegarsi alla Rete con un interfaccia vocale. E di strumenti futuribili come la carta digitale e i computer da indossare. L’accelerazione dei tempi sembra già profonda, ma la simultaneità dei contenuti ne moltiplica l’effetto sulla percezione del tempo. A sua volta moltiplicata dalla contemporaneità di diverse dimensioni della comunicazione: da uno a molti, da uno a uno, da pochi a pochi, da molti a molti, e così via.

La complessità è destinata ad aumentare. Chi ha fatto quel mestiere-scuola che chiamiamo giornalismo ha contribuito ad alimentarla. L’”information overload” è anche una sua responsabilità. Ma può diventare il nuovo terreno del suo ruolo sociale. Una nuova forma di mediazione, intellettuale, impossibile da sostituire con software per la personalizzazione dell’accesso all’informazione. Perché questa è priva di un contenuto interpretativo.

In tutto questo c’è uno stimolo straordinario alla creatività. E al ripensamento delle forme e degli strumenti del giornalismo. Se quella di Internet fosse davvero una rivoluzione, il suo slogan un po’ francesizzante potrebbe essere: libertà, velocità, comunità. Ma ogni rivoluzione ha bisogno dei suoi intellettuali. Altrimenti è solo una rivolta.

Una conclusione non può che essere una sorta di rimando a un necessario approfondimento su ciascuno dei tre elementi di questo slogan. Forse “velocità” è il più urgente: se “libertà” e “comunità” sono parole che la storia ha ingombrato di ambiguità lasciandole peraltro dense di significati positivi, “velocità” ha assunto connotati alternativamente accettabili e insostenibili. Accettabili, persino affascinanti, nei periodi in cui prevale il modernismo, l’estetica della macchina e il mito del progresso, insostenibili quando le circostanze invitano a riflettere. Il tema della “velocità” non è altro che quello del tempo e della molteplicità dei suoi ritmi. A tale molteplicità si deve adeguare un giornalismo che voglia essere completo. Solo così esso può estendere la propria capacità di raccontare: sia ciò che accade in un lampo e va registrato subito, sia di ciò che dura a lungo e va assorbito con calma. Un giornalismo che subisse solo il ritmo breve finirebbe con il perdere la propria funzione. E in tutto questo Internet, per struttura, è uno strumento utilissimo: perché il tempo di Internet non è né veloce né lento. È simultaneo. Come la realtà.

- Il tempo obbligatorio dei mass media. E l’effetto strutturale di Internet.

«Quando?»: dovrebbe essere una delle domande chiave del giornalismo. Ma lo è soprattutto per il pubblico. Il tempo, per i giornalisti, è quasi sempre una variabile esogena, stabilita dal contenitore: di solito sono i pezzi (e i fatti) che si adeguano alla periodicità e alla tecnologia del giornale. Il contrario è molto più raro e, non a caso, va sotto il nome adrenalinico di «edizione straordinaria».

Tradizionalmente, le conseguenze di questa circostanza sono state tutt’altro che irrilevanti. La gerarchia delle notizie, primo strumento interpretativo dei direttori dei giornali, è sempre stata diversa a seconda della periodicità dei loro «prodotti». La diffusione delle notizie, poi, è stata subordinata all’uscita dei giornali: uno scoop si teneva segreto fino alla pubblicazione se non si voleva favorire la concorrenza. E proprio la periodicità stringente dei giornali è stata spesso considerata una sorta di scusante per le imprecisioni che anche le migliori redazioni si lasciavano scappare. I commenti alle dirette televisive, del resto, tanto difficili da realizzare in modo corretto dal punto di vista informativo e linguistico proprio per la loro contemporaneità all’evento, talvolta sono sembrati indirizzati ad abbandonare il giornalismo per rasentare l’intrattenimento.

La stessa vita quotidiana dei giornalisti era scandita dalla necessità produttive del loro giornale. Di sicuro si esagera ipotizzando che, come c’è un parallelismo tra il sistema della produzione industriale e i mass media, così ci sia dunque un collegamento tra la catena di montaggio e il modo di lavorare dei giornalisti per i grandi media di massa. È pur vero peraltro che si tratta di un’esagerazione comunque tanto diffusa da aver indotto a chiamare «macchina» la parte del lavoro giornalistico più ispirata al taylorismo. Ma al di là di queste visioni estreme, nei giornali tradizionali resta tuttavia, apparentemente insanabile, il conflitto latente tra l’agenda della produzione e quella della ricerca giornalistica. E per ora chiaramente non bastano le soluzioni pragmatiche come la specializzazione di alcuni, soprattutto lavoratori dipendenti, sull’agenda della produzione e la trasformazione in freelance di coloro che si interessano prevalentemente alla ricerca giornalistica (essendo questi ultimi comunque relativamente difficili da gestire per le redazioni tradizionali e gli uffici del personale dei loro editori).

Insomma: sebbene il compito primario dei giornali sia quello di riportare i fatti, non sono i tempi dei fatti a scandire il ritmo e neppure i tempi della scoperta dei fatti. A guidare sono i tempi della produzione dei giornali. Certo, per imporre un’agenda ai fatti, per influire sulla visione del tempo nella comunità di riferimento, i giornali hanno potuto fare ricorso a molti «trucchi del mestiere» dagli editoriali ai reportage, mentre le televisioni hanno creato i talk show condotti da giornalisti che invece di limitarsi a raccontare i fatti si spingevano a crearli. Si è formato così un «tempo virtuale», autoreferenziale, prodotto dal sistema dei media. Il che rafforza (bisogna pur ripeterlo benché sia persino antipaticamente ovvio) l’impressione che il tempo dei servizi giornalistici non sia stato determinato né dai fatti né dalle scoperte dei giornalisti: ma, appunto, dai contenitori e dalle dinamiche che guidano chi li dirige.

Tutto questo non è un fenomeno necessario né tantomeno eterno. Anzi, si direbbe che il modello possa essere messo in crisi dalla trasformazione del sistema dei media che, di fatto, sta avvenendo soprattutto attorno alla digitalizzazione dei sistemi produttivi e distributivi. Internet, tv satellitare, tv digitale terrestre, Adsl, fibra ottica, Gprs, webcam, weblog, e così via possono avere un impatto tecnicamente ed economicamente diverso da quello immaginato qualche anno fa dagli integralisti della convergenza, ma sono indubbiamente fenomeni destinati a modificare in profondità gli strumenti del giornalismo: nei tempi della produzione, della distribuzione, della scoperta dei fatti e del loro racconto. Chiedersi in che direzione possa andare questa trasformazione per poterla magari progettare e guidare è un compito arduo ma ineludibile. Perché i rischi sono enormi quanto le opportunità.

Le opportunità sono essenzialmente sintetizzabili in una liberazione del tempo dei giornalisti dalla periodicità, soprattutto perché il loro lavoro si scioglie nel costante presente della Rete e, quindi, nella possibilità di una maggiore armonia tra il servizio giornalistico e la dinamica dei fatti sociali. I rischi si possono riassumere nella accelerazione e virtualizzazione del tempo giornalistico fino alla sua trasformazione in puro spettacolo, disintermediato o iperintermediato, con una tendenza alla sua completa commercializzazione e alla perdita di spirito di servizio del giornalismo tradizionale. È evidente che opportunità e rischi convivono. E sta a chi fa i giornali la scelta della direzione. Il passaggio chiave è in una più matura interpretazione di Internet: non più solo un nuovo medium che si aggiunge agli altri (o li minaccia), ma anche e soprattutto uno strumento prezioso per riorganizzare il processo produttivo dei giornali e la relazione tra le fonti, i giornalisti esterni, le redazioni e il pubblico. Il tutto coltivando una cultura del servizio giornalistico costantemente innovativa.

- La dinamica del tempo nei nuovi media. Velocità contro libertà?

Le opportunità e i rischi dell’impatto di Internet, in quanto medium, sul tempo del mestiere giornalistico sono sintetizzabili nell’opposizione tra chi considera determinante lo strumento e chi ritiene decisivo il progetto di chi lo utilizza. Nei due casi, la percezione del tempo risulta profondamente alterata.

Se ci si concentra sulla dinamica dello strumento, cioè sulla tecnologia, prevale chiaramente l’idea che tutto sia dominato da un ritmo serratissimo. Il tempo nella Rete infatti, come osserva il sociologo Manuel Castells, appare tanto compresso che tutto il sistema che ruota intorno a Internet sembra vivere in un incontenibile eccesso di velocità. In molti casi appare addirittura condannato all’accelerazione continua: un’impressione avvalorata dalla vasta popolarità della legge di Moore, quella che prevede la crescita esponenziale della capacità di elaborazione dei computer, doppiata dalla legge di Metcalfe, che definisce la crescita esponenziale del valore economico e comunicativo della Rete. La velocità, poi, diventa in breve tempo fretta come dimostrano biblioteche di libri dai titoli dedicati all’affannosa vita della Rete: due classici del genere, godibilissimi, sono Burn Rate di Michael Wolff (1998) e The power of now di Vivek Ranadivé (1999), che esordisce affermando: «La velocità è Dio, il tempo è il diavolo e il cambiamento è l’unica costante». Ma è Castells che nella sua monumentale The Information Age: Economy, Society and Culture dà del fenomeno la sua descrizione più nota: la velocità dell’innovazione tecnologica rende obbligatorio far arrivare al mercato la novità prima che lo faccia qualcun altro, perché si ritiene che nella Rete chi arriva primo schiacci gli avversari e dunque che i veloci battano la concorrenza (sia quella dei loro pari, sia quella dei vincitori di competizioni precedenti che vogliono conservare le posizioni acquisite). Ne consegue che, in questo contesto, la lentezza è un peccato più grave dell’inaccuratezza.

Ma se si estende questa cultura oltre il mondo della tecnologia e la si proclama valida anche per servizi come quelli editoriali, i risultati non sono quasi mai soddisfacenti. Eppure è proprio quello che è successo, spesso, nei primi anni di Internet.

I portali e i servizi giornalistici che sono stati progettati dai tecnologi o, comunque, sulla base delle specifiche dei software di produzione e distribuzione di contenuti in Rete più che in relazione al servizio da proporre al pubblico, sono falliti uno dopo l’altro. Chi li metteva in piedi in fretta e furia, in Italia e all’estero, pensandoli erroneamente soprattutto come soluzioni informatiche e dimenticando la loro qualità di «beni esperienza» (il cui valore si scopre solo dopo averli usati e che dunque non si usano se non in base a una memoria positiva) ha finito col trascurare la qualità dell’informazione proposta al pubblico, pagare troppo profumatamente i consulenti tecnici e svenarsi in campagne pubblicitarie milionarie, con risultati disastrosi.

La storia del giornalismo online è zeppa di questo genere di problemi. Tanto che per alcuni ha finito col coincidere con essi. In molti casi, per esempio, le strategie delle grandi compagnie dei media sono partite dallo strumento e non dal progetto. Fin troppo facile collegare anche a questo genere di errori le uscite di scena (alla metà del 2002) di personaggi eccellenti come Jean-Marie Messier, già chief executive officer di Vivendi, di Robert Pittman, già chief operating officer di Aol-Time Warner e di Thomas Middelhoff già chief executive officer di Bertelsmann. Ne dà conto il recentissimo libro di John Motavalli, Bamboozled at the revolution: una summa persino imbarazzante di episodi che dimostrano come i sistemi decisionali di alcune delle maggiori compagnie media del mondo, di fronte a Internet, si siano lasciati dominare dal problema di conquistare velocemente spazio online più che dalla creazione di un vero progetto per la Rete. Emblematica, per Motavalli, la storia del rapporto tra Gerald Levin, già chief executive officer di Time Warner, e i media digitali: una storia frenetica che comincia nel 1993, con l’insuccesso di una tv digitale interattiva e che prosegue con l’agonia infinita del portale Pathfinder (con buchi per miliardi di dollari). Intanto, siti come quelli di Time e Fortune sperimentavano servizi molto apprezzati dal pubblico ma poco finanziati dall’azienda (non suona familiare anche a molti giornalisti italiani?). Ma la parte peggiore arriva nel finale della storia, quando Levin, alla ricerca disperata di una soluzione per portare Time Warner online, vende tutto il gruppo ad Aol, proprio al picco della crescita speculativa dei titoli internettiani in borsa, bruciando questa volta non decine ma centinaia di miliardi.

È fin troppo facile parlare ora nei termini usati da Motavalli di scelte che, nel momento in cui venivano operate, sembravano a molti commentatori più coraggiose che avventate. Ma sta di fatto che i più grandi successi editoriali in Rete non sono mai arrivati da chi ha pensato a Internet come a un nuovo territorio da conquistare in gran fretta: in fondo, David Filo e Jerry Yang, hanno prima creato un’utile (e allora unica) guida ai siti Web e poi hanno fondato Yahoo! (che ha incontrato problemi in borsa, come tutte le dot-com, ma non ha mai smesso di dimostrarsi estremamente utile al suo pubblico e ha così potuto trovare sempre la strada per uscire dai guai). Insomma: mentre la velocità, nella tecnologia, appare come un elemento strategico fondamentale, nell’editoria non lo è necessariamente. Più importante è la qualità del contenuto e del modo di presentarlo. E la continuità con la quale si garantisce tale qualità.

Certo, questo non significa che si debba evitare la sperimentazione dei nuovi linguaggi giornalistici che la tecnologia consente di utilizzare. Il problema non è quello di rifiutare per esempio le dirette “informative” giornalisticamente disintermediate come quelle che, da Honolulu a Parigi, danno conto del traffico automobilistico o scrutano le strade cittadine con alcune webcam costantemente connesse alla Rete. La cronaca bianca e quella nera si possono solo arricchire dai filmati online che informano sulla coda al ristorante preferito, sulla quantità di gente che si trova nella farmacia aperta più vicina, sulla vita al campus dell’università dell’Oregon o sulla scena dello scippo ripresa dalla webcam installata sulla strada di fronte. E neppure il racconto multimediale di una battaglia in Ruanda, non proprio avvenuta ma ricostruita sulla base di fatti e immagini vere e dunque giornalisticamente iperintermediata. Il problema sorge quando la concezione del tempo alterata dall’eccesso di velocità produce modelli di business per i quali i portali sono fenomeni tecnologici più che editoriali e nei quali dunque ai contenuti viene riservato un budget molto limitato rispetto all’insieme dell’investimento. Questo non è solo frustrante per i giornalisti o i content provider che se ne occupano: diventa purtroppo frustrante anche per il pubblico che in breve tempo si stanca di prodotti nati stanchi. Il rischio in quei casi, non è l’eliminazione della mediazione giornalistica, ma la virtualizzazione del tempo dell’informazione fino alla sua trasformazione in puro spettacolo, con una tendenza alla sua completa commercializzazione priva di spirito di servizio informativo. Se al contrario non è la tecnologia ma il progetto editoriale a tenere in piedi l’iniziativa, il successo prima o poi arriva: commisurato all’intelligenza dell’impegno editoriale intrapreso. I dati sull’afflusso di pubblico ai siti informativi che le società di ricerca registrano in questo 2002 lo confermano.

- La dinamica del tempo nei nuovi media. Il costante presente di Internet

È decisamente ironico: proprio nel momento in cui i media italiani si sono disamorati di Internet, il pubblico ha cominciato a dedicare alla Rete un’attenzione quantitativamente e qualitativamente senza precedenti. I due fenomeni hanno genesi e profondità diverse: il primo è passeggero, il secondo, molto più stabile. Il che è destinato a condurre a una situazione tuttora poco prevedibile.

Sta di fatto che se il valore economico del giornalismo online resta ancora tutto da scoprire, il valore d’uso della Rete per il pubblico e per i giornalisti è ormai completamente dimostrato. Ogni giorno, gli italiani passano 150 milioni di minuti online: si scambiano posta, prevalentemente, cercano siti, fanno operazioni bancarie e prenotano viaggi, ma non mancano di consultare i servizi di informazione. Anzi, il successo di pubblico di siti giornalistici come quello de «La Repubblica», del «Corriere della Sera», de «La Stampa» e de «Il Sole 24 ore» si misura ormai nell’ordine dei milioni di pagine consultate al giorno. La crescita dei lettori di giornali online ormai supera quella di coloro che accedono alla Rete nei paesi più sviluppati, secondo i dati forniti da comScore Media Metrix. E del resto in Europa, dicono le statistiche della Forrester Research, 21 milioni di persone leggono regolarmente il giornale in Rete: complessivamente si tratta dell’8 per cento della popolazione, ma la percentuale è già superiore in Svezia, Italia e Germania. L’Italia, paese che non cessa di lamentare il basso numero di lettori di giornali di carta, è invece superiore alla media europea in quanto ad accesso all’informazione in Rete: qui ben l’11 per cento della popolazione legge il giornale online. Dopo lo svedese «Aftonbladet», l’italiano «La Repubblica» è il giornale che sperimenta la maggiore proporzione in Europa di lettori che accedono sia all’edizione cartacea che a quella online del giornale: il 20 per cento. E senza la temuta cannibalizzazione: segno che (a differenza di quanto pensavano gli editori) i lettori capiscono perfettamente che si tratta di due prodotti ben diversi (infatti, come controprova, non hanno decretato un successo clamoroso per la vendita online dell’edizione in formato elettronico del giornale che sono abituati a comprare in versione cartacea ogni mattina in edicola).

Internet è dunque entrata nella vita quotidiana degli italiani. E vale la pena di indagarne le conseguenze. Perché la Rete ha già modificato in profondità il mestiere dei giornalisti e non solo di quelli che lavorano per pubblicare sul Web. Se i postumi della sbornia speculativa impediscono ai più di fare progetti impegnativi che riguardino il giornalismo online, prima o poi si tornerà a prestare attenzione al tema. E allora, se invece di assumere anche a livello editoriale il tempo della tecnologia si definirà il tempo dell’editoria in funzione del servizio da proporre al pubblico, si arriverà poter cercare nuove espressioni giornalistiche e gradi di libertà superiori a quelli che l’epoca dei mass media poteva concedere.

Internet, infatti, può trasformare completamente il tempo del giornalista: da variabile esogena, può farla diventare una dimensione scelta dal giornalista e dal suo pubblico, magari in funzione dei fatti che il giornalismo deve descrivere (il che sarebbe un bel passo avanti per la qualità del servizio). Questo dipende da alcuni caratteri tipici, e dimostrati, dell’accesso al giornalismo online: 1. simultaneità di accesso alle diverse periodicità giornalistiche; 2. revisione del rapporto contenitori-contenuti; 3. personalizzazione della fruizione delle news.

Su Internet si vive in un costante presente. Il pezzo del mensile, quello del settimanale e quello dell’agenzia si vedono uno accanto all’altro. Come del resto sono uno accanto all’altro i pezzi d’archivio del Corriere e gli ultimi telegiornali de La Sette. Questa vicinanza risulta in una insipida giustapposizione, fino a che le redazioni considerano i pezzi andati online come un sottoprodotto della loro attività principale: ma il pubblico, sempre più interessato ai giornali online, sta guidando la loro trasformazione in servizi dal carattere autonomo e coerente con le sue specificità. Il flusso di notizie è continuo, ma l’archivio è sempre disponibile. Il presente e il passato sono contemporaneamente online. Non solo avviene che il pezzo approfondito e la notizia secca siano accessibili nello stesso momento, ma succede anche che le varie testate e i diversi servizi che esse dedicano agli stessi argomenti siano facilmente confrontabili: i contenitori tradizionali sono inesorabilmente saltati dai motori di ricerca, come Moreover e Presstoday, che riaggregano i contenuti a seconda delle curiosità dei lettori. Lo stesso effetto risulta dai servizi di personalizzazione, agenti elettronici o menu di feed di notizie che gli utenti selezionano per riceverne i titoli su un’unica pagina: nate dall’esigenza di combattere l’information overload, queste soluzioni sono divenute in pratica dei nuovi contenitori che rimandano solo successivamente ai giornali che originariamente hanno pubblicato gli articoli. Internet diventa così una sorta di mega-medium che rende i contenuti accessibili in molti modi e con molte forme narrative.

Il giornalismo onnimediale che deriva da tutto questo, dunque, non è scandito dai tempi di uscita in edicola o in tv, è costantemente accessibile, dunque si deve proporre come costantemente aggiornato: con l’ultima notizia secca come con l’ultimo approfondimento che vale la pena di dedicare a un argomento. Se non lo fa un giornale, il pubblico lo troverà fatto da un altro giornale. La liberazione dalla periodicità editoriale dei mass media e il nuovo ritmo del costante presente vissuto dal pubblico che accede online all’informazione giornalistica, consentono ai giornalisti di ridefinire il proprio rapporto con il tempo, di prenderne possesso e di usarlo come uno strumento a loro disposizione invece che come un dato di fatto.

La ricerca giornalistica dovrebbe trarne vantaggio. Ne può infatti emergere un rapporto con il tempo più libero e profondo, simile a quello degli storici alla Fernand Braudel, che scelgono la durata di riferimento per la loro narrazione in base alle qualità dei fenomeni sociali che descrivono. Braudel, maestro degli storici del Novecento, ha proposto di trattare il tempo come un insieme di tre durate, corrispondenti a tre dimensioni dei fenomeni sociali: la lunga durata, cioè il tempo dei fenomeni strutturali, geografici, ecologici; la moda, il ciclo economico o la congiuntura culturale; l'avvenimento, il fatto che si conclude in se stesso. E la sua analisi va nella direzione di raccogliere i fatti e le teorie che più sono coerenti per rispondere ai problemi posti dalle diverse situazioni che si manifestano nelle diverse durate e nelle diverse dimensioni del sociale. Jean-Noël Jeanneney, nel suo recente “L’Historie va-t-elle plus vite?” offre il suo supporto a questa concezione: sostenendo che mentre la velocità della tecnologia e dell’economia inducono a credere che la storia abbia subito una brusca accelerazione, nella realtà fenomeni che vengono da lontano continuano a modellare il presente e a pesare sul futuro. E se non vengono percepiti, l’analisi del presente e l’immagine del futuro ne risultano distorte.

Per i giornali si apre un’epoca caratterizzata dalla libertà di approfondire le notizie, di scegliere il servizio da promettere al pubblico e di stabilire le regole che si impegnano a rispettare: non è il mezzo che li guida in questo percorso ma la loro identità.

Perché non è certo la quantità di informazione che manca. L’unica medicina contro l’information overload è il servizio giornalistico “facile da usare” ma non per questo meno approfondito: un servizio che si proponga come personalizzabile, costantemente aggiornato su ogni argomento, con un archivio facilmente accessibile per una fruizione legata più al tempo dell’utente che a quello del produttore.

- Il tempo è denaro? Oppure il tempo è vita? Il valore d’uso di Internet

Alla fine la conquista di questa saggezza non potrà che discendere da un’innovazione culturale, forse addirittura etica, riguardante la concezione del tempo che potrebbe emergere nel lungo periodo dall’incontro tra giornalismo e nuovi media. Un recupero della cultura tipica della tradizione internettiana potrebbe in questo senso essere istruttiva: la cultura originale dell’accademia americana dalla quale la Rete ha avuto origine, la cultura della ricerca condivisa, del tempo online inteso come parte della vita e non come puro business potrebbe rimettere con i piedi per terra l’editoria online.

In effetti molti malintesi sui progetti editoriali per Internet si sono sviluppati intorno a una concezione ben poco internettiana del tempo, simile a quella insegnata da Benjamin Franklin nel suo Advice to a Young Tradesman del 1748: «Il tempo è denaro». Un punto di riferimento concettuale chiaramente riduttivo che ha prodotto concetti editoriali riduttivi. Se, invece, il costante presente della Rete parte dalla quotidianità della vita online, dal valore d’uso di Internet, ciò che vi si pubblica entra a far parte di un ecosistema più equilibrato e alla lunga più sensato dell’information overload provocato dalla foga pubblicatoria di chi cerca solo di moltiplicare le pagine disponibili per moltiplicare gli spazi vendibili, riuscendo soltanto a svalutare i listini delle inserzioni pubblicitarie.

In realtà, al di là del crescente numero di visite ai siti Web dei giornali (che peraltro non sono ancora abbastanza apprezzati dagli editori in quanto non producono un grande fatturato), le migliori applicazioni di Internet al giornalismo (per esperienza comune) si trovano nel valore d’uso della Rete per migliorare la vita quotidiana dei giornalisti. E questo si è già tradotto (chiunque lo può confermare) in un miglioramento strutturale del loro lavoro, primo passo di una riorganizzazione profonda del processo di produzione giornalistica. La mail, gigantesco passo avanti nell’efficienza delle comunicazioni, la ricerca di notizie, storie e confronti via Web, la consultazione dell’enorme, facilissimo, archivio di articoli, studi e informazioni enciclopediche della Rete: sono solo alcune delle pratiche divenute in breve tempo quotidianità dei giornalisti, sia degli scettici sia degli entusiasti della pubblicazione sul Web. Pratiche rese tanto più popolari quanto più facile e gratuita è la pubblicazione dei giornali online: il che dovrebbe fare riflettere sul ritorno economico e qualitativo della pubblicazione online. Come nella ricerca accademica si pubblica gratuitamente per favorire la ricerca di tutti, così di fatto è avvenuto nel giornalismo: il che ne ha migliorato la produttività. Ma il sistema funziona se tutti gli utenti portano il loro contributo: un tempo si parlava di shareware, poi si è parlato di peer-to-peer. In realtà si tratta sempre della condivisione del sapere.

Il tanto ricercato modello di business della pubblicazione giornalistica in Rete ha dunque un punto di partenza che è sotto gli occhi di tutti: è nel valore d’uso di Internet che migliora la produttività del tempo del giornalista. Un fenomeno che peraltro non è ancora gestito con sufficiente progettualità. E ancora una volta questo produce rischi importanti quanto le opportunità.

A questo proposito, tecnicisticamente, molti hanno parlato di Internet come di uno strumento capace di liberare il tempo del giornalista dalla costrizione della redazione tradizionale e dell’avvento di un tempo di lavoro più flessibile. In questo caso, ovviamente, si tende a sopravvalutare lo strumento e a sottovalutare il fatto che la vita dei giornalisti è sempre stata più flessibile di quella della maggior parte degli altri impiegati (delle aziende editoriali e non). Del resto, Internet non sostituisce l’intensità organizzativa e creativa degli altri “media” tradizionali, come le riunioni mattutine e gli incontri casuali al bar. Semplicemente si aggiunge a questi come una dimensione comunicativa in più.

In realtà, Internet è uno strumento che offre enormi opportunità per una riorganizzazione generale del lavoro giornalistico. Può dare una spinta significativa alla modernizzazione del processo redazionale in senso allargato, riorientando le relazioni tra fonti, fornitori, collaboratori, pubblico: può facilitare la gestione dei freelance, rendere più efficiente la produzione di infografiche e l’acquisto delle foto, valorizzare l’archivio, migliorare la trasmissione di cultura redazionale, agevolare l’accesso a corsi di aggiornamento, semplificare la gestione dei viaggi e delle missioni, alimentare la creatività dei singoli e del gruppo, favorire i collegamenti con il dibattito internazionale, e così via. Se progettato in questo senso, il contributo di Internet può essere determinante nel coltivare le motivazioni intellettuali dei giornalisti, la cui curiosità e creatività sono ancora tra i beni più preziosi delle loro testate. Eppure Internet non ha ancora dispiegato tutte le sue potenzialità da questo punto di vista. È la conseguenza della lentezza con la quale le abitudini radicate si modificano. Ma anche di qualche cosa di intrinseco alla Rete, che ambiguamente libera e imprigiona. La vischiosità dei modi di lavorare è un fatto storicamente ben noto. Le nuove tecnologie molto spesso si inseriscono nei processi produttivi in un primo momento senza modificarli ma limitandosi a renderli un poco più efficienti: solo in seguito i processi vengono completamente reingegnerizzati in base alle opportunità organizzative offerte dalla tecnologia. E lo stesso avviene nel giornalismo. Ci vorrà tempo perché la Rete dispieghi i suoi effetti. Anche perché non offre solo possibilità liberatorie, ma anche nuove costrizioni. E il suo uso più produttivo richiede un insieme di prese di coscienza che riguardano il tempo, la qualità della vita, le fonti della creatività, che sono ancora piuttosto poco presenti al management delle risorse umane nei giornali o, nei casi più illuminati, sono comunque considerate poco prioritarie.

Il dibattito peraltro è avviato da tempo. Perché i cambiamenti, gestiti o più spesso non progettati, appaiono comunque inarrestabili. E, appunto, ambigui. Lo conferma Pekka Himanen, nel suo L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, quando si occupa di spiegare la distanza che c’è ancora tra la realtà e le potenzialità liberatorie delle nuove tecnologie della comunicazione: «Fino a oggi l’organizzazione del lavoro non è cambiata molto nell’economia dell’informazione. Pochi sono in grado di derogare dalle ore lavorative rigidamente regolari, malgrado il fatto che le nuove tecnologie dell’informazione non soltanto comprimono il tempo, ma lo rendono anche più flessibile. Con tecnologie come la Rete e il telefono cellulare, si può lavorare dove e quando si vuole. Ma questa nuova flessibilità non conduce automaticamente a un’organizzazione del tempo più olistica. Infatti, la tendenza dominante nell’economia dell’informazione sembra essere rivolta verso una flessibilità che porta al rafforzamento della centralità del lavoro. Più spesso che mai i professionisti dell’informazione usano la flessibilità per rendere il tempo di svago più disponibile per brevi intervalli di lavoro, piuttosto che il contrario. In pratica, mentre il blocco di tempo riservato al lavoro è ancora incentrato su una giornata lavorativa di (almeno) otto ore, il tempo libero viene interrotto da intervalli di lavoro: mezz’ora di televisione, mezz’ora di e.mail, mezz’ora fuori con i bambini, inframmezzate da un paio di telefonate di lavoro con il cellulare». Esperienza comune. Troppo comune.

Robert Reich, già ministro del Lavoro di Bill Clinton, ne L’infelicità del successo, spiega il fenomeno ricordando la concorrenzialità sempre più frenetica dell’economia della Rete: «L’economia emergente offre una scelta senza precedenti di grandi opportunità, prodotti favolosi, investimenti vantaggiosi e ottimi posti di lavoro per le persone con il talento e l’abilità giusti. Mai nella storia umana tanti individui avevano avuto accesso a tante possibilità così facilmente. La tecnologia è il motore. Nelle comunicazioni, nei trasporti e nell’elaborazione dati le nuove tecnologie che hanno acquistato slancio negli anni Ottanta e Novanta oggi corrono a velocità sorprendenti. Grazie ad esse è più facile, da qualsiasi luogo, trovare offerte migliori, e passare immediatamente ad opportunità anche più vantaggiose. Queste tecnologie accentuano fortemente la concorrenza tra venditori, il che a sua volta provoca un’incredibile ondata d’innovazione. per sopravvivere, tutte le organizzazioni devono migliorare in modo drastico e continuo: tagliare i costi, aggiungere valore, creare nuovi prodotti. Il risultato di questo tumulto è una produttività più elevata: prodotti e servizi di ogni tipo migliori, più rapidi, a costi ridotti. A livello economico tutto ciò va a nostro grande e inequivocabile vantaggio. Ma quel che implica per il resto della nostra vita - per tutti quegli aspetti che dipendono dalla solidità, dalla continuità e dalla stabilità dei rapporti - è estremamente problematico. Più è facile per noi come clienti passare a qualcosa di meglio, più noi come venditori dobbiamo darci da fare per conservare ogni cliente, afferrare ogni opportunità, aggiudicarci ogni contratto. Il risultato è che le nostre vite sono sempre più frenetiche».

E conclude Himanen: «Se usiamo la nuova tecnologia per favorire la centralità del lavoro» arriviamo «facilmente a una dissoluzione del confine tra lavoro e tempo libero incentrata sul lavoro». Ma l’etica hacker (che nell’accezione di Himanen non sono gli scassinatori di computer altrui ma esteti della programmazione al computer) insegna che esiste una dimensione diversa del rapporto con le tecnologie. «Gli hacker ottimizzano il tempo per avere più spazio per il divertimento: Linus Torvalds (maestro di hackerismo, ndr.) pensa che, mentre sta sviluppando Linux, ci debba sempre essere tempo per il biliardo o per sperimentare programmi che non abbiano scopi immediati». E la produttività ne viene alimentata non compressa. «La fonte più importante di produttività dell’economia dell’informazione è la creatività, e non è possibile creare cose interessanti in condizioni di fretta costante o con un orario regolato dalle nove alle cinque». Perché, nell’economia dell’informazione, quando è la qualità e non la quantità a misurare il successo, non è vero che il tempo è denaro.

Se si fa tesoro di questa tradizione culturale, se la produttività che conta è quella della qualità creativa del lavoro dei giornalisti, allora Internet si giustifica abbondantemente dal punto di vista economico e pubblicare online diventa un contributo all’ecosistema dell’informazione. Anche perché Internet si dimostra un supporto e un arricchimento, non un’alternativa agli altri media e ai loro modelli di business. A questo livello, il compito degli editori è quello di coltivare la produttività creativa degli autori, dei quali peraltro non possiedono né il tempo né la vita.

A questo punto, fallito il progetto generale degli editori di fare tanti soldi con la quotazione in borsa dei loro prodotti online, il problema non è più quello di inventare un modo per costringere il pubblico a pagare per i contenuti pubblicati in Rete: il problema è quello di far arrivare un flusso di denaro sufficiente al dignitoso sostentamento dei giornalisti e di coltivare l’ecosistema informativo nel quale si inserisce il loro lavoro: fatto di professionisti che scrivono per testate importanti, di amatori che pubblicano il loro weblog, di utenti che reagiscono ai sondaggi o ai forum, di comunità che si scambiano informazioni nei newsgroup specializzati. E casomai a tutto questo si aggiungono i contenuti tanto preziosi che si possono proporre a pagamento.

In un simile ecosistema, il processo produttivo dei giornali è riorganizzato, i giornalisti possono apparire più competenti e ai più competenti si apre al strada del giornalismo, acquisisce più senso il pedaggio che gli editori fanno o non fanno pagare per l’accesso ai contenuti degli autori che tengono sotto contratto e il pubblico non è più schiacciato dalla parte sbagliata del sistema dei media: quella di chi, passivamente, paga per tutti. Intanto, nuovi compiti, peraltro remunerativi, si affacciano all’orizzonte editoriale: critica delle fonti, segnalazione delle novità, confronto delle informazioni di diversa origine sullo stesso argomento, servizi di distribuzione personalizzata dell’informazione e così via.

Il futuro ecosistema dell’informazione parte da qui: una ridefinizione del tempo giornalistico adeguata ai fatti più che ai tempi della produzione; una ridefinizione del rapporto degli editori con Internet che parta dalla ricerca di una maggiore produttività dei giornalisti, più che dalla concettualizzazione della Rete come un semplice medium, e che arrivi a una reingegnerizzazione del processo di produzione giornalistica per cogliere le opportunità offerte dallo strumento; una ridefinizione dei compiti degli editori, meno orientata al possesso e allo sfruttamento di canali di distribuzione e più concentrata sul servizio al pubblico, in termini, appunto, di personalizzazione e agevolazione dell’accesso alle fonti dell’informazione e alle mediazioni giornalistiche.

Tutto questo può apparire fuori tempo, in un periodo di recessione. Ma è invece la crisi il momento in cui le forme di riorganizzazione profonda hanno più ragione di essere. Il recente disinteresse dei media nei confronti della Rete è una delle conseguenze della sbornia speculativa di qualche tempo fa: gli editori si sono convinti che Internet non sia in grado di sostenere economicamente lo sforzo di produrre i servizi giornalistici cui consente di accedere. E se nel periodo, devastante, della bolla c’era almeno la chimera dell’arricchimento finanziario, oggi non sembra esserci né quello né un modello di business provato in grado di produrre fatturato. D’altra parte, il valore d’uso della Rete è ormai percepito massicciamente e sperimentato quotidianamente dalla popolazione. Nel 2002, anche in Italia, l’uso della Rete non è più limitato a collegamenti occasionali, effettuati più che altro per curiosità: è sempre più spesso un’abitudine e una necessità. E i milioni di pagine dei quotidiani storici italiani viste online ogni giorno non sono di poco conto, solo perché non producono un fatturato gigantesco. Si tratta di contatti di tutto rispetto con il pubblico. Ed è profondamente ingiusto e sbagliato che le redazioni che se ne occupano siano poco valutate all’interno dell’organizzazione editoriale cui fanno capo e che i giornalisti che ne fanno parte si sentano spesso tenuti in una considerazione minore rispetto ai colleghi della carta stampata o del notiziario principale.

In realtà, le opportunità offerte da Internet per i giornalisti italiani restano ancora largamente inesplorate. Forse perché la fretta tecnologica, l’avidità finanziaria e la concezione limitativa di Internet come medium hanno indirizzato l’attenzione dalla parte sbagliata. L’occasione storica di rinnovare il panorama giornalistico italiano chiuso e scarsamente concorrenziale sembra essere sfuggita. Ma non è che un fatto passeggero. Milioni di persone che passano sempre più tempo davanti a un computer, sono una popolazione rilevante dal punto di vista economico, critica dal punto di vista culturale, in grado di dare un senso preciso allo sforzo di informare in modo innovativo. È il momento di pensare alla prossima fase della grande trasformazione in atto. E di darsi dei punti di riferimento concettuali che possano guidarne la progettazione.

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Riferimenti:

Si ringrazia «Problemi dell’Informazione» e il suo direttore Angelo Agostini, che ha consentito in questo manuale la ripubblicazione di alcuni testi dell’autore usciti sulla rivista nel corso del 2002.

Per quanto riguarda l’evoluzione della piattaforma digitale:
D. A. Norman, The Invisible Computer. Why Good Products Can Fail, the Personal Computer is so Complex and Information Appliances are the solution, The Mit Press, Cambridge Massachusetts, 1998.
A. Penzias, Harmony. Business, technology and life after paperwork, HarperCollins, New York, 1995
B. Giussani, Roam. Making Sense of the Wireless Internet, Random House, New York, 2001
F. Carlini, Divergenze digitali. Conflitti, soggetti e tecnologie della terza Internet, Manifestolibri, Roma, 2002.
C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della net economy, Einaudi, Torino, 2002.

Per quanto riguarda il dibattito sul nuovo giornalismo, i rapporti tra Internet e gli altri media e le nuove periodicità: http://poynteronline.org/resource_center, http://www.ojr.org/ojr/page_one/index.php, http://www.well.com/user/jd/webjournalism.html, http://www.well.com/user/jd/barlow.html, http://www.ajr.org
Michael Wolff, Burn Rate, Touchstone, 1998; Vivek Ranadivé, The power of now. Dalla nuova economia all’economia a tempo zero, Olivares 2000
Manuel Castells, The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell Publishers 1996.
John Motavalli, Bamboozled at the revolution, Viking 2002.
Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori 1969; Jean-Noël Jeanneney, L’Historie va-t-elle plus vite?, Gallimard, 2001
Pekka Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Feltrinelli 2001
Robert Reich, L’infelicità del successo, Fazi 2001

La discussione sulla responsabilità dei giornalisti, il loro nuovo ruolo nella società della conoscenza, il ruolo degli editori e di coloro che aprono notiziari pur non pensandosi come editori, i nuovi criteri di verità e l’autoreferenzialità dei media, l’information overload, la credibilità dell’informazione via Internet, l’etica del lavoro giornalistico all’epoca del Web, i temi collegati del diritto d’autore, della privacy e della sorveglianza sono decisivi. E a questi saranno dedicati altri approfondimenti nelle prossime edizioni di questo manuale. Chi voglia può però proporre un contributo, magari dopo aver visitato questi siti:
Etica - http://www.duke.edu/~wgrobin/ethics/sum02
Credibilità - http://www.webcredibility.org
Diritto e Internet - http://cyberlaw.stanford.edu e http://cyberlaw.stanford.edu/lessig
Manipolazione e tecnologia - http://captology.stanford.edu

PRESENTAZIONE
-COME SI USA QUESTO MANUALE

INTRODUZIONE
- L’INFORMAZIONE E’ LA SUA STRUTTURA

PRIMA PARTE.
INTRODUZIONE AL GIORNALISMO ALL'EPOCA DI INTERNET

SECONDA PARTE.
COME SI LEGGONO I GIORNALI ONLINE

TERZA PARTE.
IL PROGETTO DEL GIORNALE ONLINE

QUARTA PARTE.
PRODUZIONE DEL GIORNALISMO ONLINE

QUINTA PARTE

PROSPETTIVE DEL GIORNALISMO ONLINE
5.1. - Economia del giornalismo online
5.2. - Ipotesi sul futuro

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